Era il 1984
quando ascoltai per la prima volta Billie Jean di Michael Jackson, avevo solo dodici
anni e credevo ancora nelle favole. Thriller fu il mio primo album acquistato
insieme a mia sorella per il nuovo impianto Hi-fi regalatoci dai nostri
genitori. Ora potevo ascoltarlo tutte le volte che volevo ad altissimo volume
in una stanza grande in cui potevo esercitarmi liberamente a ballare come lui.
Iniziò allora il mio amore per lo spettacolo e non mi vergogno a scriverlo,
anche perché oggi posso benissimo comprendere come nell'adolescenza si possano
avere modelli non culturalmente elevati ma che ti danno la parvenza di un certo
protagonismo narcisistico adatto all'immaturità che fa e segue la moda, insomma
per farla breve fu la mia prima cotta, la mia prima proiezione in un oggetto d’amore il cui corpo costituiva un’unica melodia
ritmica con lo spazio che lo circondava.
Era il tempo dell’immagine, della
creazione di un universo migliore rispetto al mondo reale: così mi affrettai
anche a comprare un vestito simile, le scarpe dovevano essere uguali e i
capelli, beh sì cercai di renderli il più simili possibile. L’amore per la
danza c’era sempre stato sin dalla più tenera età e non fu difficile imparare a
memoria le sue coreografie che, alla prima occasione di festa ripresentavo tali
e quali, orgogliosa degli applausi e dei complimenti. Tutto doveva ancora
avvenire e così sognavo quell'avvenire immaginifico su note disco e frenetici
movimenti. La vita era un’avventura senza sosta, uno stupore meccanico del
corpo che segue il pulsare del sangue. E pensavo, così, infantilmente, quanto
poteva essere felice Michael Jackson che aveva tutto quello che si può
desiderare: il successo, il talento e la possibilità di metterlo in mostra. Certo
è che nell'adolescenza non puoi ancora capire (perlomeno nel mio caso, fanciulla
ovattata e viziata) cos'è veramente la Vita, cosa si nasconde effettivamente
dietro il sipario: luci e volume fuori, dolore e angoscia dentro. Così crescendo
imparai ad ascoltare altro e a fare confronti, ma nel cuore per lungo tempo ci
rimase solo lui. E arrivò il periodo di Bad, il 1987: mi piaceva un po’ meno e
cominciai a notare i cambiamenti del suo volto, stentavo a riconoscerlo, non
capivo il motivo di questa trasformazione e percepivo anche nella danza
qualcosa di eccessivamente meccanico e ripetitivo, come dei tic nervosi
incontrollabili … eppure anche questa volta mi lasciai trascinare dai suoi
stessi tic, sentivo che erano espressione del tempo, quel tempo che stava
scorrendo via velocemente proprio come i suoi passi. E poi lui così bad non ce
lo vedevo proprio.
Dell’album preferivo Smooth criminal così come il video: lì
la danza sembrava già qualcosa di veramente virtuale, era la danza nella danza,
lo spettacolo travestito da spettacolo. Il vestito era irresistibile e me lo
feci uno uguale con cappello abbinato e non era per me come mascolinizzarmi,
anzi … forse percepivo in profondità la sua recondita femminilità.
La forza
della sua voce si esplicava solo nella canzone Dirty Diana in cui la chitarra
di Slash sottolineava le sue amabili grida.
Ma ormai erano gli anni della mia
crescita intellettuale e spirituale e presto lo riposi in un cassetto, cedendo
la seduzione dello spettacolo alla ricerca della mia identità. Continuai a
seguirlo, anche se in maniera più distaccata … nonostante tutto era stato il
mio primo amore. Ritornò sulla scena nel 1991 con l’album Dangerous una vera
delizia per continuare a danzare dopo le ore della palestra. E così con Jam,
meno spettacolo e più autentico movimento salutare.
E intanto, il volto di un
Peter Pan senza isola, continuava a cambiare. La canzone Heal the world sembrava
cantata da un bambino per i bambini: vi coglievo l’innocenza nella sua voce,
niente altro, pura e semplice innocenza ed in seguito quando ci fu lo scandalo
della sua presunta pedofilia, tornai ad ascoltare questa canzone e capii
benissimo dentro di me che un pedofilo non avrebbe mai potuto cantare in modo
così candido ed angelico. La sua voce non mentiva.
Ed i suoi cambiamenti, anche
se diversi, procedevano con i miei: così Michael Jackson rimase nel mio cuore
come l’esperienza della gioia genuina della vita in divenire che fa spettacolo
di sé stessa, rimase lì nel mio cuore con Earth song una canzone di alcuni anni
dopo in cui seppi finalmente cogliere tutta la sua tragedia umana sotto il velo
spesso dell’apparenza, delle luci e degli applausi.
Caro Michael Jackson, ora
ti vedo in un altro modo perché l’esperienza e la vita mi hanno portato lontano
dal mondo sognato, ma ora posso capirti meglio di allora, posso cogliere dietro
il fasto la tua tragedia umana ed esistenziale e so che la sofferenza di tutta la
terra era ferocemente dentro di te e ha fatto di te un semplice uomo, ultimo
tra gli ultimi, ma primo nel paradiso del dolore.
Vincenza Fava