Binari storti

Binari storti
Binari storti (LietoColle, 2015)

domenica 30 ottobre 2011

Angelo

Dicono che sono un angelo, ma non mi conoscono. Non lo sanno che gli angeli vivono Altrove, in mezzo a noi, ma Altrove. Un'altra dimensione a cui è difficile accedere, si può solo percepire quando riesci ad afferrare, in quel milionesimo di istante passeggero, una luce che ti abbaglia e ti rende leggera mentre profumi di Eden smarriti, ritornano in immagini di voli su torrenti in fuga. E' una fuga e un ritorno in caduta e la vertigine ti trasforma in polvere di diamanti che presto diventeranno solida carne su terreni polverosi. Terreni aridi e terreni erbosi, deserti e praterie, mari e laghi di cemento. Qui scendono piogge di lacrime quando mi dici che vivere non è abbastanza, quando mi dici che hai bisogno di una coperta per non avere freddo questa notte e lì dietro l'angolo un bambino sta morendo. Così il mio amore non può difenderti, non può assorbire tutto il dolore, non può colmare le mancanze, così il mio nome non è Angelo, bisogna andare Altrove per trovare il mio nome, Altrove per trovare un Angelo sopravvissuto alle cadute del mondo.

Vincenza Fava

Maria la Bella

La "fanciulla" corrisponde all'Anima dell'uomo ... ma finché si accontenta di essere una femme à homme, la donna non ha nessuna individualità femminile. E' vuota, una mera esteriorità, e diventa un gradito ricettacolo delle proiezioni maschili.
C.G.Jung

L'educazione maschilista ancora è dura a morire in alcuni paesi in cui la donna viene cresciuta come un ricettacolo vuoto in cui s'imprimerà la volontà maschile. Questo racconto (solo uno stralcio) è solo un caso limite ed estremo ma ispirato a fatti veri. Lo stesso racconto sembra essere ambientato in un mondo lontano del passato, ma ha forti analogie con il mondo odierno delle veline, donne che non pensano, donne che si agitano sensualmente per attrarre quell'uomo che riverserà su di loro le proprie antiche proiezioni di essere predominante e plasmatore ... E la cosa grave è che oggi sono proprio le stesse madri ad educare le figlie a questo tipo di cultura che resta pur sempre maschilista ...
V.F

Mi chiamo Maria, sì Maria come la mamma di Gesù e sono nata in questo paese dimenticato da Dio ben 20 anni fa. Tutti gli uomini qui mi chiamano Maria la Bella, ho un bel sedere e due tette da brivido e come esco di casa a far spesa non riesco a camminare per più di cento metri che qualcuno mi chiama e fischia:"Ehiiiii!!!Bella, Marì la Bella, vuoi venire a fare un giretto con me? Andiamo a vedere se sono fatti i fichi!". Questa storia dei fichi mi fà ridere e quanto rido, rido così tanto che tutti i miei denti bianchi sembrano sassi lucidi di mare e i miei occhi verdi s'illuminano come fari nella notte! Una volta ci sono andata a vedere i fichi ... ma mica solo una eh! Se lo sa mia madre ... Devo tenere questo segreto finché non mi sposerò, i miei già stanno preparando la dote e stanno cercando un uomo serio, con un lavoro sicuro e una casetta nuova di zecca dove crescere i figli che verranno. Non vedo l'ora di indossare l'abito bianco ed entrare in chiesa con il volto coperto da un velo bianco d'amore!!! Mi chiamo Maria e quel giorno sarò più bella della Madonna ... Mi piace ridere, mi piace parlare tanto ... di vestiti, di stoffe, di piccoli gioielli, di tovaglie ricamate e di piatti buoni da preparare ... eh sì perché dovrò essere brava a cucinare, il mio uomo ne sarà felice. E dovrò essere brava a fare certe cose, così lui non mi tradirà mai ... Ma sono bella, non devo preoccuparmi ... so tacere anche, sarà lui a parlare di cose serie per me (ma quali sono poi le cose serie?), io parlerò solo di quello che so fare ossia la brava moglie, la brava madre, sarà lui che mi insegnerà a capire come devo comportarmi. Mia madre mi ripete spesso che un matrimonio poggia soprattutto sulle spalle di una buona moglie e questo sarà il mio compito: non deludere ... sono bella, me lo dicono tutti, sono brava, me lo dice mia madre ... Io non voglio pensare, non mi piace pensare e gli uomini hanno sempre ragione ... Ma ora meglio pensare ai fichi:"Agostì, aspettami che arrivo!!!! Non vorrai mica lasciare qui Maria la Bella tutta sola, no???".

Vincenza Fava

sabato 29 ottobre 2011

Donna

E mi disse ...
nulla sei
nulla donna
sei solo una prostituta
di parole eretiche,
chiedi perdono
tra il sangue
delle tue bestemmie
e l'immagine del tuo volto.
Non fioriranno rose
sul tuo cammino
e raccoglierai fango
e fiele
che uccideranno
la tua purezza
che un giorno
è stata mia.

Vincenza

Ritmo 1

Aveva un po' di soldi in tasca e camminando sul boulevard intriso di foglie malinconiche e sgualcite dai passanti, si fermò assorta a pensare a cosa poteva fare con quei pochi spiccioli, bastavano a mala pena per il pranzo dell'indomani, una zuppa calda o magari una baguette farcita ... Ma il boulevard a quell'ora della sera ispirava ben altro ... si sedette pensierosa su una panchina appartenuta poco prima ad una coppia di giovani amanti, freschi di sorrisi e di baci. Le si era stretto il cuore ad immaginare ... solo immaginazione e niente altro. I sogni hanno vita breve quando la vita chiede altro: un lavoro? Un uomo che pensasse a lei? Ma quando mai si sarebbe lasciata convincere, a condividere, a permettere che qualcuno osasse avventurarsi nel suo cuore ormai troppo stanco di favole, di parole, di gesti quotidiani, di una tazza di latte freddo, inacidito dalla noia di un mattino acerbo ma già pieno di orrori da smaltire durante la giornata ... Eppure c'era ben altro, lo sapeva dentro di lei e il dilemma era agire o restare inerme a pensare, a pensare alle lungaggini di un tempo che non trovava scorciatoie verso la fine degli affanni. Era ora di alzarsi e prendere la vita di petto, inzupparsi, infangarsi, sporcarsi, ma era ora di farlo ... Si alzò tormentata e stanca di non essere riuscita a trovare una soluzione. Si rimise a camminare, avanti, andava avanti ed amava fermarsi ogni tanto sotto la luce magica di un vecchio lampione che sembrava stare lì proprio per lei, per appoggiare il suo corpo, la sua debole carne e i suoi occhi accecati dal nulla del domani. Poi si guardò in una vetrina, la luce del lampione le rimandava il suo volto e la sua figura: era ben vestita, prima di uscire di casa aveva messo il vestito più bello, un vestito di seta nera, lungo con un ampio spacco laterale, scarpe nere, tacchi alti. La folta capigliatura le ricadeva sulle spalle e le donava un non so che di angelico e di diabolico ad un tempo, specialmente le labbra rosso carminio erano un invito a perdersi nel suo desiderio di sentirsi ancora viva ... Così prese coraggio e si avviò in modo fulmineo verso quella milonga un tempo tanto amata. Entrò e lasciò dietro di sé ogni paura; il fumo denso del locale le aveva già annebbiato la mente e la musica suadente la invitava a vivere l'effimero dell'istante, di quel presente ora tangibile ed affascinato dai passi marcati e stretti dei tangueros. Vide un tavolo libero, si sedette, non aveva un compagno, non poteva ballare e aspettò che la sorte le donasse una mano amica. Non importava, l'intenzione contava più dei fatti, più della realtà stessa, l'intenzione di sentirsi carne unita al movimento e al ritmo del sangue ora fluido e fattosi puro istinto ...

Be continued ....

Vincenza Fava

venerdì 28 ottobre 2011

Assenza

La condizione di alcuni esseri viventi ... la condizione dell'uomo, la condizione degli animali, a volte troppe analogie ci fanno pensare che in fin dei conti la vita è importante per tutti e che nessuno è esente dal dolore dell'assenza.

Teddy stava buono, aveva imparato a stare buono, in quei quattro metri quadrati che ormai erano diventati la sua casa ...  da quando era nato, sì ma quando? Ricordava a malapena il volto di sua madre, il caldo coccolio del morbido ventre e non rammemorava i suoi colori ormai sbiaditi ... oppure, forse, il suo mondo era stato sempre in bianco e in nero? Non ricordava, no che non poteva ricordare ... il cielo aveva cambiato tinta un sacco di volte durante quel tempo, anche se non sapeva cosa fosse il tempo, non gli era dato modo di sapere, ma conosceva le sfumature ... il nero-blu della notte acerba, il rosa ambrato dell'alba, il bianco e fulgido candore di un cielo estivo di mezzogiorno, il grigio nebbioso di un mattino autunnale e la luce accecante della neve di gennaio. Solo questo gli era dato di sapere, solo quello che poteva osservare da quell'angolo nascosto di mondo. E un pasto lo aveva, una volta al giorno; quella signore gentile, vestita coi soliti panni di tutta una vita, glielo porgeva amabilmente ed una carezza riusciva ad ottenerla, bastava scodinzolare per una decina di minuti, da quando si apriva il cancello di quel triste luogo che era la sua casa ... sì ... per tutto il tempo della sua piccola vita ... ma che cos'era la vita e che cos'era il mondo ... era tutto lì in quei quattro metri quadrati che conosceva alla perfezione. La sua cuccia troppo calda d'estate e troppo fredda d'inverno, lo accoglieva come un vecchio involucro moribondo. Spesso arrivava gente nuova, c'erano anche dei bambini! E ogni volta sperava che fosse la volta buona per avere una famiglia, una casa accogliente, cibo caldo da masticare beatamente, carezze colme d'affetto che non chiedevano niente altro in cambio se non un abbraccio di coda, un sorriso di baffi ... Ma nessuno lo voleva, forse era il suo aspetto fisico che non andava, forse era quella macchia nera sul muso, forse erano le sue gambe troppo corte o forse o forse ... mah misteri, non andava. Basta. Non c'era altro da aggiungere. Non andava affatto. Doveva accettare, doveva rassegnarsi. Tuttavia, l'unica cosa che non sopportava era il fatto di non riuscire a capire perché fosse nato se non poteva fare ciò per cui era nato ... amare ... amare qualcuno ... solo qualcuno ... non avrebbe chiesto altro e perché, si chiedeva, è così difficile amare se è l'unica cosa che conta, l'unica cosa che avrebbe voluto fare, l'unica cosa che avrebbe dato un senso alla sua vita. Ma allora è vero che gli esseri umani hanno così bisogno d'amore come dicono di avere? Allora è vero che hanno così voglia di amare come dicono di volere? Forse sono nato in un mondo sbagliato, pensava, il mondo degli esseri, semplicemente esseri con niente di umano. Altri suoi simili, adottati e comprati, avrebbero detto il contrario, lui no, non poteva affermarlo perché questa era la sua vita, questa la sua casa, questa la sua assenza nel mondo degli esseri e non poteva credere in ciò che non aveva ma solo in ciò che sentiva: assenza, una lunga e perdurante assenza che lo avrebbe accompagnato fino al momento in cui non si sarebbe ricongiunto al morbido ventre di sua madre ... unico affetto, unico amore della sua inutile esistenza. E la grande tragedia è che questa è la condizione dell'essere ... animali o umani, per molti è così ...

Vincenza Fava

giovedì 27 ottobre 2011

Radici

Se trattenere significa imprigionare ... quante volte abbiamo cercato di afferrare qualcosa o qualcuno per renderlo prigioniero delle nostre insicurezze? Quante volte ci siamo chiusi le orecchie per non ascoltare la voce di chi implorava la libertà dalle catene? E quante volte abbiamo scambiato l'amore per una sorta di illusione di possesso di quell'anima che sfuggiva al nostro controllo? Se pensiamo seriamente a tutto questo, ci accorgeremo che il concetto di amore è ben lontano da ciò che realmente dovrebbe essere: scambio di carne, è vero, ma soprattutto scambio di anime e di pensieri, scambio e non imposizione. Accettazione e non rassegnazione. Stima e non gelosia. Libertà e non fare ciò che si vuole. Comunicazione e non solo silenzi ovvero silenzi significativi, quando occorrono. Silenzi e non rifiuti, questi ultimi sono un colpo al petto, una ferita che tarda a guarire, ma una volta guarita non si torna più indietro, per sempre. E non bastano più le parole, non bastano più gli abbracci e i sorrisi perché il dolore puro c'è stato, il dolore che fa vomitare l'anima fino alla più piccola fibra del tuo minuscolo involucro che racchiude un essere frantumato e devastato. Dalla devastazione, però, si rinasce: basta non aver bruciato o sotterrato per sempre le tue radici, quelle che attingono ancora a un po' d'acqua per dissetare i rami secchi. E su quei rami secchi, basta un germoglio che con la prima pioggia di primavera, tornerà a fiorire. E con il senno di poi, si cercherà la luce giusta per crescere, l'aria più ricca di ossigeno per respirare e nasceranno fiori per augurarci di trovare la purezza dei sentimenti, amicizie e amori senza dare nessun dolore, senza ricevere nessun dolore ...
Vincenza Fava

mercoledì 26 ottobre 2011

Musica del cuore

Eh sì ormai aveva capito di essersi abbandonata un po' troppo al suono della musica, quella musica lenta e cadenzata che tutte le sere illuminava la sua stanza e la inebriava di nuove parole, dolci e sensuali note melodiose. Avrebbe voluto sciogliersi in quell'abbraccio sospirato ... poi se ne andava la voce e i segni dell'ultimo bacio ... restava il vuoto di brividi che avrebbero voluto essere colmati e cullati da quella passione ... perché della musica, quando è miele d'ambra e sabbia bianca d'estate scivolata lentamente tra le mani, non riesci più a fare a meno. E più ti prende e più ti addolora il silenzio che segue perché lì vorresti restare per sempre, in quegli attimi di sospensione, in quel fiume che ti trascina lontano verso lidi intravisti da albe sconosciute ai giorni ordinari. Eh sì ... perché quella musica era amore, era passione in passi lenti e freschi di speranze nuove ... ma la tristezza poi giunge ... poi giunge perché la musica deve tornare e colmare la malinconia di ciò che se ne è andato col tuo cuore ...

Vincenza Fava

domenica 23 ottobre 2011

Dentro lo specchio

Sara aveva un desiderio che voleva assolutamente veder esaudito. Da tempo fantasticava sulla strana eventualità di diventare invisibile: le sarebbe piaciuto enormemente andare per esempio a casa di sua madre e suo padre e sentire i loro discorsi, certo ormai li sapeva a memoria, ma in sua assenza si sarebbero lasciati sfuggire dettagli e particolari a lei finora ignoti, così almeno pensava dentro di sé. E quel tarlo la divorava ogni giorno, ogni notte, soprattutto nei momenti di pausa, quando l’ozio e la negligenza prendevano avidamente possesso delle membra e di ogni più piccola nervatura del corpo. Il caldo insopportabile non l’aiutava certo a riprendersi dal dormiveglia continuo in cui divano e letto erano i migliori sostenitori dell’amata indolenza. Lei si crogiolava nella presunta patologia, ci si gongolava beatamente, tanto che ormai la “malattia” aveva assunto un ruolo troppo importante nella sua vita, fino a sostituirla completamente. Così l’invisibilità rappresentava il punto di arrivo di un percorso faticoso che la conduceva in uno stato di beatitudine fuori del normale, un energico sprofondare nella culla del nulla, la possibilità di scomparire e al tempo stesso di essere presente come un fantasma solitario in cerca di pace. L’ostacolo principale era però la sua mente sempre in bilico tra il dover essere e l’essere, tra l’accedere e il ritirarsi, tra una scommessa e un pentimento, tra l’ombra e la luce, tra lo stringere e il lasciare, tenere duro e abbandonarsi. Ma, anche la mente poi cedeva all’indolenza, dopo una lotta all’ultimo sangue contro sé stessa, cedeva …. e come se cedeva. Sara si scrutava poi allo specchio, ma non vedeva nulla, solo un’immagine riflessa, non poteva essere lì il suo benedetto corpo, non poteva restare bloccato in un oggetto. Di qui il pensiero che la materia potesse riflettere pur sempre l’esistenza. Ma fu in un giorno qualunque che scoprì la sua verità. Decise di andare lungo il corso di un fiume (un tempo lo aveva desiderato quale ultima meta per cancellare le proprie sofferenze) e vi si specchiò, cercando di afferrare un minimo movimento di essenza nelle piccole vibrazioni dell’acqua. Ricordandosi del mito di Narciso, rifletteva sul rimando ai propri occhi della sua immagine e non si beatificava come un tempo, no, ormai aveva compiuto il grande passo del dolore nella separazione del sé perché vedeva l’Altro in quella immagine. Aveva riparato con la sofferenza l’antica ferita del primario tradimento della madre, ricucendo con fili di sangue la propria sembianza frantumata. Così la precoce lacerazione, un tempo allontanata con l’insicuro ed inefficace, egoistico ed infruttuoso amore per sé, l’aveva condotta ad un ulteriore passo per la comprensione della propria coscienza, al di là dei consueti schemi mentali di vita quotidiana. L’indolenza era solo uno strumento per non cedere al dolore e uno stratagemma per evitare di affrontare la vita. Era bastato specchiarsi e in un giorno di caldo asfissiante aveva scoperto che cosa aveva provocato tanto dolore e quale era il giusto rimedio per sanarlo. Amare e confrontarsi senza aver paura di perdersi e di soffrire, fidarsi ciecamente delle proprie capacità e dell’amore degli altri. Solo questo niente altro…. Sembrava una scoperta di poco valore, ma in realtà era la rivelazione che le apriva gli occhi sull’intero universo e l’unico modo per creare il proprio destino individuale.
Vincenza Fava

venerdì 21 ottobre 2011

Uovo trasparente

Lo vedi sì? Sono una bambola, una bambola che sorride, acqua, fuoco, denti e ossa, sull'ultimo gradino ho riposto il mio vestito, per prenderlo devo sporgermi e salire. Lì su quelle scale son caduta sulla polvere dei centimetri che annullano la matematica dei pensieri. Ho appreso l'alfabeto degli uomini quando ho sentito la pelle asciugarsi al sole e arrendersi alle luci della notte. Non capisco il fresco vuoto, non mi desto al biasimo della mente. Sono qui, mi vede lo specchio che mi rimanda ad un ritaglio di giornale, spensierato destino dalle candide acque viola del mio umore. Un'altalena che gioca con le dita del bambino, un piccolo frammento di uovo trasparente, un cucchiaio sul davanzale del domani per raccogliere i cocci di cenere che ho spento sul mio corpo. Ho appreso a camminare nei cerchi di grano, nella campagna spudorata, senza ansietà di buona condotta. E lì mi sono abbandonata ai primi diluvi primaverili quando i cieli dipingono schermaglie di verde speranza. Non colmavo il bisogno, chiedevo profetiche parole per parlare con gli dei dell'emiciclo, con i papaveri delle donne curve sui telai, con le braccia dei servi della Terra.
Vincenza Fava

giovedì 20 ottobre 2011

Lo schermo del mondo

Aspetto la notte per vedere i colori del giorno...spegni la roboteante rumorosità dei piatti e non ti accorgi che si accendono altri suoni quelli dei segreti seduti sui libri su cataste di pensieri andati.
Come è piccolo
lo schermo
del mondo!
Sembra una lanterna
nelle dita di un gigante
che annega nel fiume
delle sue parole!
Allora
apri le finestre
sul muro battuto
delle storie.
La placida serenità
di un lampione
offerto al vento,
una panchina
compagna della luna,
alberi stretti nell'umido deserto
di pirati ubriachi di donne sole.
E mentre si consumano amori di niente
bambini aggrappati a scialuppe di morte
sprofondano semi di speranza
in voragini di disperazione.
Tiranni uccisi
balconi fioriti
soldi ammuffiti
giostre di danza
su una nave di gioielli
lusso e vuoti a perdere
nella pancia affamata
del mondo ...
Come è piccolo
lo schermo del mondo!
La gioia non paga il dolore
e l'indifferenza
spezza il cuore.
Come è piccolo
il sentimento del mondo!

Vincenza Fava

mercoledì 19 ottobre 2011

Destino

Destino
tu mi consumi ...
hai le ferite
degli anni
e il sangue
del mio pianto.
Scosse
e brividi
allontanano
la paura
e l'intrepido
sussulto
di vederti
un giorno
accanto a me,
folle d'amore
per le mie
parole
in un letto
di speranza.

Vincenza Fava

martedì 18 ottobre 2011

Tempo e Spazio

Spesso si soffermava a pensare a quanto tempo fosse passato dall'ultima volta che aveva rivolto lo sguardo al cielo cercando i segni di altre esistenze. L'ultima volta era stata una sera d'estate, in completa solitudine sulla riva del mare, intenta ad osservare il cielo sopra di sé. Era l'ora del tramonto quando all'orizzonte i colori del sole sembrano un arcobaleno sereno che avvolge le membra stanche ormai di pensare troppo. Ed era a furia di pensare che, si rendeva conto, non era arrivata da nessuna parte. Doveva abbandonare la razionalità a volte soffocante, a volte in perdita costante, a volte minata da visioni gigantesche di tragedie immani, impossibili da risolvere. In quel tunnel disarmante era entrata troppe volte e troppe volte ne era uscita fortunatamente illesa e soprattutto ne era uscita più forte di prima, capace di descrivere il mondo, le sue emozioni e tutto ciò che la circondava in poche parole. Ed in quella solitudine, in quella stasi apparente, comprese che i brividi dell'esistenza erano un'illuminazione in grado di sorreggerti per pochi istanti per poi abbandonarti nuovamente al delirio e all'impotenza di poter dare una spiegazione logica a ciò che logico e razionale non è. Era una lotta all'ultimo sangue tra il bianco e il nero, tra il bello e il brutto, tra il buono e il cattivo, tra il giusto e l'ingiusto. Si struggeva di non riuscire a comprendere quell'Uno a cui tanto aspirava, presente per un millesimo di istante e poi lontano giorni, mesi e anni. Faticava a comprendere il motivo di tanta incostanza, forse era la sua incostanza, la sua incapacità di restare ferma nel movimento continuo di un'esistenza che girava vorticosamente intorno a lei senza darle la possibilità di capire in modo totale. Capiva, questo sì, la miseria di una vita, un briciolo di tempo di fronte all'immensità dello spazio che l'avvolgeva. Ma l'infinità dello Spazio la portava continuamente verso l'infinità del Tempo. E guardando le stelle comparire nel cielo, si chiese se tutte le domande non avessero infine un'unica risposta che non era nel cercare, ma semplicemente nell'osservare la tenera espansione del suo animo verso l'infinita grandezza dell'universo.

Vincenza Fava

lunedì 17 ottobre 2011

Prima che

Ricordo i primi passi sulla spiaggia, sembrava di sprofondare in una terra soffice, inzuppata di acqua e fango di vento. Mia madre ansiosa e preoccupata mi teneva per le mani, non voleva che il mare mi trascinasse lontano da lei. Con lei dovevo restare, vicino a lei dovevo restare e sembrava che mi dicesse che all'infuori di lei tutto era pericoloso, tutto l'orizzonte poteva ingoiarmi e l'infinito non sarebbe stato mai alla mia portata, alla portata di ogni uomo e donna che avrebbe calpestato il suolo dell'esistenza. Eppure volevo immergermi in quelle acque ritmate dove le onde giocavano a rincorrersi come quando giocavo con mia sorella tra gli alberi selvaggi della campagna. Avrei potuto essere gioco nel gioco, ma il gioco era troppo pericoloso, vicino a lei dovevo restare, con lei dovevo restare. Ma le mie mani cercavano di liberarsi dalle sue, volevo vivere di mare, volevo vivere d'infinito, sapevo già dentro di me che l'orizzonte non era troppo distante dal mio corpo e dal mio tenero spirito, ingentilito di poche memorie ancora. E le grandi memorie vanno create col fuoco del coraggio, perché la polvere può trascinar via con sé ogni ricordo. Abbiamo poco tempo per vivere di coraggio, il resto del tempo lo gettiamo nel vento, così come se fosse spazzatura. Dobbiamo stringere il tempo, dobbiamo vivere d'amore e solo di esso consumarci. Ma quelle mani, a volte, ancora mi stringono per fermare il mio istinto, per dirmi che non è possibile andare verso il mistero dell'esistenza, paura devi avere paura, non puoi non avere paura, devi avere paura e tutto sarà più semplice. Eliminando la paura, potresti avventurarti in zone proibite e cadere sotto i colpi del destino, le onde potrebbero trascinarti lontano da me, figlia mia, lontano da me, resta vicino, resta ancora non te ne andare. Eppure adesso so che devo andare, niente paura, posso gettarmi nel mare, posso vivere di aria e di onde, posso cadere sotto i colpi del destino, posso cadere perché un giorno dovrò cadere lo stesso ed è meglio essere preparati e saper cadere, magari, perché no, anche ridendo. E tutto resta, tutto resta accanto a sé stesso, ma noi no, noi non resteremo mai così vicine, così vicine. Voglio restare con me stessa, voglio cadere da sola e imparare a cadere negli infiniti segni del mistero e abbracciare il mio destino prima che io cada sotto i suoi colpi, prima che sia troppo ... prima che ... prima che il buio parli alla mia voce, trasportando con sé le mie povere confessioni di anima confinata nelle mani di un Dio qualunque.

Vincenza Fava

Guerre

Guerre parricide,

matricide,

infanticide.



Tradimenti infami

di croci infangate,

trasversali cospirazioni

nel viaggio mortale

di grattacieli allucinati.



Epoca di sangue

perduta

nelle menti illuse

di un Eden disilluso.



Scoppi,

ribollii,

valanghe,

scariche…

tripudio di carne suicida.



Nulla è più duro

del nero incrocio

di strade innevate

da odio e rancore.



Non pregate il nulla,

il vuoto,

l’assenza

di un Dio nascosto

nelle luminose escrescenze

del lusso danaroso

del placido perbenismo.



Oh! Crudele sonno della ragione!

Ascoltate il pianto silenzioso

degli angeli torturati…

 Vincenza Fava






sabato 15 ottobre 2011

Troppo lontano

Amore è un bacio sospirato, è una lacrima che scende sul viso, è un fremito del corpo, è una voce che canta e ti solleva... così pensava, mentre si ritrovava a sognare e a cullare nel vuoto della sera una figura disegnata nella mente, ma che aveva dei contorni perfetti come il sole quando scende sul mare e sembra abbracciare l'orizzonte, nel tentativo di non lasciarlo andare lontano, troppo lontano ... l'immagine sarebbe diventata sottile, sfocata fino a scomparire, ma la cosa importante era cercare di stringere, era la volontà di afferrare l'inafferabile. Allora baci sfiorati, carezze fresche come seta, mani gentili che avrebbero cercato l'alba nel suo corpo. E poi il nome del silenzio nelle ombre che seguono gli sguardi persi nel piacere di sentirsi uniti nel dualismo dell'esistenza. E il tentativo di rinascere nel fuoco che libera i sentimenti, quelli puri, quelli che non hanno definizione se non nei gesti e negli sguardi... Infine una voce, un'eco nella notte che avrebbe risuonato nei vicoli del mondo, negli angoli nascosti delle città, nelle vesti di giganti bambini sorpresi dalla castità di stelle innamorate del loro cielo illuminato dalla luce di una nuova alba. Quell'alba del suo corpo che nascondeva diamanti di abbracci per quella figura disegnata nella sua mente, ma che aveva una voce perfetta e sarebbe stata la voce della sua notte amica quando una lacrima scende sul viso e diventa fiume d'amore per perdersi nella profondità di un sogno eterno, eterno come l'orizzonte abbracciato dal sole, prima che se ne vada lontano, troppo lontano ... 

Vincenza Fava

Al mercato

Camminavo tra le bancarelle, persa nel vociare della gente intenta ad acquistare piccoli oggetti, vestiti usati, scarpe economiche e stranamente colorate, fiori per arredare case chiuse al sole o amorose tombe da piangere in giornate uggiose e deprimenti. Mi rendevo conto della moltitudine, dell’estensione dei corpi, della materia che occupava lo spazio e non riuscivo a vedere altro se non la mia perdurante assenza. Neanche un boato avrebbe potuto risvegliarmi dalla pesante apatia che martellava furiosamente nella mia mente. Le persone erano diventate maschere bianche, in vesti cangianti e trasparenti. Una bambina nella carrozzina lanciava grida inverosimili che scioglievano il tepore della pelle materna. Il venditore di formaggi ormai era intrappolato senza saperlo negli infinitesimali umori del latte cagliato, mentre il commerciante africano di borse se ne stava seduto per terra, in attesa della prossima persona interessata alle futili mercanzie che riportavano famosissimi marchi riprodotti alla meno peggio. Bastava attraversare la strada e lasciare quel mondo confuso, aggrovigliato in pochi spazi in cui le strettoie apparivano corridoi verso l’appropriazione indebita delle possessioni. Acquistare un oggetto mi avrebbe regalato un tempo, l’effimera sensazione di appartenere al gruppo, alla generale , bulimica consumazione di ore capricciose e frivole. Ma una cosa aveva attirato la mia attenzione: un vociare più forte proveniva da un punto ancora indecifrabile. Cominciai ad avvicinarmi allo spazio in questione captando la vicinanza sempre più imminente delle voci. Mi affacciai in punta di piedi tra le teste della gente e vidi un vigile urbano che urlava a squarciagola, mentre un  venditore del continente nero stava rimettendo le sue cianfrusaglie dentro una gigantesca borsa di plastica. Non hai il permesso, ti dico ancora una volta, non hai il permesso, vattene di quiiiii! Mi hai visto? Chi sono io, eh? Chi sono?, Io non so, io non so… Come non lo sai, lo sai e fai finta di non capire, ma chi c…o ti ha fatto venire qui, eh, me lo sai dire, tornatene da dove sei venuto e fai pure in fretta altrimenti m’inc…o sul serio! Nel momento stesso in cui il ragazzo sulla ventina, dalle pelle color ebano e lucida di sudore e vergogna, si mise la borsa a spalla e cominciò a camminare verso la propria autovettura, la gente, come se non fosse successo un gran che, ricominciò a passeggiare e a guardare le bancarelle. Solo io ero rimasta lì, inebetita e più apatica di prima, col peso sulla coscienza, un senso di colpa avvilente: non avevo agito, il gruppo mi aveva agito.
Vincenza Fava

venerdì 14 ottobre 2011

Bla bla bla

Meno male che il tempo passa, passa e ti istruisce. Se fosse un eterno istante e tutto volgesse all'infinito su questa terra, non imparerei ad amare l'incertezza e l'effimera presenza della carne. Meno male che ci sono occhi per guardarti dentro e capire ciò che sta fuori. Meno male che impari a vivere di te stessa. Meno male che sono umana con tutti i miei pregi e i miei difetti. E meno male che esiste l'amore universale, perché è ovvio solo l'amore innocente e disinteressato ti dona la felicità. Non sopporto le madri che amano solo i propri figli senza donare uno sguardo amorevole a tutti gli altri che incontrano, pensando solo che siano un pericolo per la sopravvivenza dei propri. Questo non vuol dire essere genitori amorevoli, significa solo insegnare l'egoismo delle proprie catene. Non sopporto chi ti umilia solo per sentirsi superiore, non sopporto l'indifferenza calcolata, non sopporto le amicizie superficiali e le frasi stereotipate che si usano per convenienza e per buona educazione, meglio il silenzio. Bla, bla, bla, bla, bla, bla....E allora il rumore di tanto vocìo ed inutile parlare si calmerebbe e tutto volgerebbe al vero significato delle parole, perché una parola ripetuta mille volte e sempre allo stesso modo perde ogni significato, rimane il vuoto, un vuoto che colpisce la tua sensibilità che trova spazio e libertà solo nella costruzione di immagini interiori. Questa è la mia felicità, la mia poesia, il suo significato: giocare con le parole, farle saltare una ad una, scomponendo e ritraendo le mie emozioni, il mio pensiero e la mia follia.

Vincenza Fava

Grazie

Grazie al poeta e pittore Ennio de Santis per questi suoi pensieri ...


L’arte di Vincenza Fava



Natura è l’eterno ripetersi che esprime forza e bellezza in tutte le sue forme. Sta all’occhio catturarle, concepirle al pensiero.

I poeti, gli artisti credo abbiano, oltre questa facoltà, il dono dell’immaginifico che penetra e scopre gli altri volti nascosti nel reale, mettendoli in luce, quali nuova fattura che esalta i sentimenti, rendendoli palpiti in armonia col creato.


Vincenza,

dalla tua poesia, dalla tua danza, penso tu faccia parte di questi.

Vegli i giorni e le notti del tuo tempo.

Aguzzi l’occhio, la mente, li affondi e scavi nel cuore buio delle esistenze che ti vengono incontro. Insegui nel loro ventre le voci, le creature in embrione che chiedono, e tu dai loro, vita: le ho viste uscire dai tuoi versi e, nei tuoi passi, danzare.



Luglio 2008

Ennio De Santis



  







Mickey Mouse ... amico mio

A volte basta ritornare all'infanzia per poter ritrovare il sorriso, non servono sempre grandi libri e metafore ricercate, a volte basta poco ...

Non so perché, come è successo e quanta fatica sento sulle braccia... è il peso forse di questa giornata malinconica o sono i giorni a venire che mi incutono più timore? Trasecolata, sdegnata e inferocita con questo barbaro e insulso trascorrere del tempo, mi intestardisco a rimuginare pensieri indefessi, litanie assordanti, rimbalzi costanti e cadute sciroccate sul selciato lastricato di spine pungenti di cui è cosparsa, seppur ingenuamente, la mia mente infervorata, incasinata, di domande.... a cui, purtroppo, mio lettore, ahimè, non riesco a dare nemmeno una  benché minima risposta. Allora mi siedo, sorseggio un po' di tè, mi rilasso, con una dolcissima musica new age, sarà forse l'unico modo per poter rasserenare il mio piccolo e stanco cervello di un insulso seppur vitale essere umano, o quel che ne rimane. E allora... ora cosa faccio... penso, e poi penso nuovamente ancora....cioè tutto questo, in fin dei conti, amabilissimo lettore, non mi è servito a nulla, a che pro distendere le proprie membra spossate e affannate su questo sofà ammorbidito da anni di calorose impronte del mio pur stanco deretano? Ma come parlo, come mi è venuta in mente una tale stoltezza da far rabbrividire anche il più ingenuo lettore dell'agognato amico  mitico Mickey Mouse..... non è proprio da me, lettrice instancabile di romanzi multilingue, di poesie arcane e misteriose e di saggi labirintici che intorpidiscono la mia mente e la inducono in una sorta di godimento  metasessuale e in un fecondo narcisismo metapoietico di strabiliante fattura e bellezza (non a caso mi specchio frequentemente in ogni pagina del libro che sto leggendo, creando nessi e legami tra ciò che sono e quello che potrei essere, fermo restando la concupiscenza mattutina con la mia beneamata colazione....), dico non è da me, starmene così impallidita e morente sul divano a mugulare... ma dov'è il telecomando? Ehi! Mickey Mouse è pronto per partire!

Vincenza Fava


Vestimi

Questo racconto mi è stato ispirato da alcune persone conosciute nella mia vita, non vuol essere un’accusa a tutte le donne, ma solo fortunatamente, ad una parte esigua della popolazione femminile dedita ad una ricerca spasmodica di una identità fuorviante e distruttiva. Vuole essere un’esortazione al cambiamento, alla ricerca dolorosa ma salvifica della propria anima.



Non era la prima volta che si trovava a fare i conti con un pezzo di merda del genere. L’ennesimo rimprovero. Il capo. Chi? Quel povero imbecille che tutte le mattine sorseggiava il caffè offerto dalla sua segretaria personale, che arrivava e se ne andava a qualsiasi ora, alla barba di tutti i dipendenti. Silvana aveva già incamerato  una bella dose di rabbia e alle 11 del mattino aveva proprio voglia di sputargli in faccia tutto il rancore accumulato in una settimana di lavoro. Per fortuna che domani sarebbe rimasta a casa, anzi no, si sarebbe fatta accompagnare da Mauro all’outlet. Almeno lo stipendio del mese avrebbe avuto un senso. Mentre il capo sbraitava e argomentava sull’increscioso episodio avvenuto proprio quella stessa mattina a causa della sua irrazionale avventatezza nei confronti di una collega dei piani alti, Silvana già costruiva castelli in aria e assaporava il dolce gusto del bancomat inserito nell’apposito aggeggio elettronico. Allora: un tubino stravagante per il prossimo matrimonio degli amici, magari firmato Cavalli. Un paio di sandali con le pietre. Una sciarpa di seta. Una borsa di pelle rossa. Ed infine, dulcis in fundo, un anello d’oro bianco con un brillante incastonato. Erano anni che lo sognava. Di solito si accontentava dell’argento o di bigiotteria di alta qualità. Questa volta, per superare l’arrabbiatura presa in quello stesso istante, avrebbe chiuso un occhio, anzi no, tutti e due. Ma Mauro avrebbe fatto lo stesso? Bisognava trovare il modo giusto per convincerlo. La solita lacrima di coccodrillo forse non avrebbe avuto più lo stesso risultato. Beh, ci avrebbe pensato quella notte…. Gli ultimi completini intimi acquistati l’avrebbero di certo aiutata ad ottenere ciò che desiderava. Ora il capo aveva finito di parlare. Ora toccava a lei. S’inventò al momento delle scuse plausibili per addolcire la situazione. Tanto il capo era un uomo e come tutti gli uomini ci avrebbe creduto. Bene, l’aveva scampata di nuovo, nessuna punizione con la promessa di evitare un simile comportamento la prossima volta. Bye bye amigo! A lunedì! Avrebbe voluto dire a mai più, ma sapeva che non era possibile. Quella faccia del cavolo non si sarebbe cancellata dai suoi giorni a venire.



A casa, ora tornerò a casa. Quante cosa da fare! Ritirare i panni lavati e asciugati, stirare, preparare la cena, lavare i bagni e rifare i letti anche se a quello sicuramente ci aveva già pensato quella logorroica di sua madre. Ma per fortuna che c’era e a qualcosa ancora serviva. Il tempo di una doccia e poi l’attesa con il completino intimo azzurro, anzi no, forse quello rosso era più indicato. Mauro sarebbe arrivato verso le dieci da Firenze, chissà ora dove era. Pensò bene di chiamarlo al cellulare per ascoltare come gli era andata quella giornata lavorativa. Ora si sarebbe dovuta sopportare tutta una serie di chiacchiere su quello che aveva fatto, su chi aveva incontrato, quante macchine aveva venduto e quindi la parte migliore, quanti soldi aveva intascato. Perché diciamoci la verità, a noi donne di oggi, non interessano le coccole e le smancerie scontate, serve un bel gruzzolo in una borsa firmata Martini. Avrebbe fatto benissimo a meno di lui come avrebbe fatto a meno di tutti gli uomini della terra e, a volte, in preda ad una ossessione compulsiva, prendeva la calcolatrice e cercava di calcolare quanto avrebbe ricevuto mensilmente da un divorzio consensuale, ma poi in preda all’ansia, notando la cifra esigua che compariva sul display, faceva retromarcia, ci ripensava e si consolava da sola, ritenendosi fortunata ad avere un “portastipendio” abbastanza remunerativo e coscienzioso … Allora si affacciava alla finestra del suo balcone spoglio e cominciava a respirare la solita aria inquinata di quella città sfavillante in cui vetrine e negozi già baluginavano di smanioso splendore, smanioso come il vuoto che l’accerchiava e quel vuoto doveva essere subito riempito. Non ci pensò un attimo, la cena poteva aspettare, si cambiò con l’ultimo vestito acquistato ed uscì immediatamente da quella prigione per respirare la libertà di uno shopping sfrenato che l’avrebbe salvata dalla sua solitudine, non sapendo che la solitudine, invece, era proprio là fuori, nella giungla di un prezzo altissimo da pagare, quello della propria anima.

Vincenza Fava




giovedì 13 ottobre 2011

L'odissea dell'io beckettiano nell'ultima grande trilogia: oltre la dissolvenza del corpo e della voce

Per tutti gli appassionati del grande scrittore e drammaturgo irlandese Samuel Beckett (1906-1989), premio Nobel nel 1969, è uscita la traduzione italiana di “Nohow on” ossia “In nessun modo ancora” (Einaudi, pag. 100, € 14,50) a cura di Gabriele Frasca. Compagnia, Mal visto, mal detto e Peggio tutta costituiscono in un certo senso la seconda trilogia romanzesca beckettiana (1981) e quindi l’ultima grande stagione creativa narrativa, dopo Molloy, Malone meurt e L’innomable (1951-1953). Con L’Innomable, il tentativo finale, decisamente fallito (volontariamente), di dar vita, corpo e voce ad un tradizionale eroe romanzesco, tra esegesi narrativa e meta letteratura, Beckett era ormai approdato alla grande forma espressiva teatrale estremamente congeniale alla sua inesauribile ricerca di nuove realtà sperimentali - contemporanee in cui i nuovi medium come la radio e la televisione andavano ad interagire con il corpo e la voce dell’attore. Eppure Beckett sentiva ancora la necessità di confrontarsi con la scrittura, con il linguaggio per andare, intellettualmente, oltre il semplice significante strategico comunicativo e stereotipato delle parole, ed arrivare alla consunzione della costruzione sintattico-grammaticale tradizionale dell’idioma scritto e parlato. “Giunge una voce a qualcuno nel buio. S’immagini. A qualcuno sul dorso del buio”: inizia così Compagnia il primo racconto di In nessun modo ancora. Questo buio indefinibile, potrebbe essere benissimo lo schermo nero di un televisore. Tuttavia non c’è il silenzio assimilabile al nero, ma una voce, un rumore di sottofondo, un corpo steso sul dorso, senza nome, privo di qualsiasi attività mentale. Qui si può benissimo intravedere la filosofia beckettiana intrisa della nota dicotomia cartesiana res cogitans e res extensa, rivista e rigenerata attraverso l’occasionalismo teocentrico del grande filosofo seicentesco olandese Arnold Geulincx (1624-1669) il quale aveva spinto al limite il dubbio cartesiano e il ricorso a Dio. Per Geulincx solo Dio è causa di tutte le cose, anche il corpo non risponde ai nostri comandi, ma dipende dal volere di Dio, per cui l’uomo non deve far niente altro che seguire la volontà di Dio, esercitando l’umiltà. La sua morale può essere riassunta nella massima: “Ubi nihil vales, ibi nihil velis”. L’uomo deve disprezzare sé stesso (despectio sui) e cercare nella propria interiorità (inspectio sui). Beckett fa però di questa massima l’esempio della passività nichilistica, della tensione verso il vuoto e il nulla, verso l’assenza inverosimile e paradossale della mancanza di movimento e quindi forse di Dio. Tutto parte dalla testa, il cranio, sede presupposta delle nostre facoltà mentali: ma il cervello è quasi completamente annientato e il corpo giace inerme al buio. Perché tutto dipende dalla volontà. Torna a sprazzi il minimo movimento ad indicare che ancora c’è vita e possibilità di parola. È impossibile costruire un romanzo basato su una storia, su un intreccio, sul tessuto del tempo narrativo. Beckett a volte traccia degli sputi di immagini: un vecchio, una strada di campagna, i passi nel silenzio, suoni che variano come cadenze ritmiche di un necrologio in fieri. Poi: “Dalla voce una fioca luce s’espande. Quando essa risuona il buio rischiara”, alla voce è associata la luce, portatrice di vita nel buio onnipresente. Luce, buio, voce, silenzio, bianco, nero, sono le coppie coscienziali ed esistenziali amate dallo scrittore. Beckett a volte diventa quasi un anatomista; la descrizione neuro-fisiologica dei movimenti impercettibili del corpo è inevitabilmente associata alle interminabili speculazioni linguistiche. Tutto è trascinato alle sue estreme conseguenze, si raggiunge il limite di ogni possibile situazione attraverso un’immersione continuativa nel dubbio esistenziale-teologico dell’individuo privato dei rapporti umani e gettato nell’inferno schizofrenico del proprio io. La compagnia di un altro essere umano è soltanto un’utopia: “Fino a che alla fin fine tu non senta come stiano cominciando a finire le parole.… La favola di qualcuno con te nel buio. La favola di qualcuno che affabula con te nel buio. La favola di qualcuno che affabula di qualcuno con te nel buio. E quanto meglio a conti fatti la fatica persa e il silenzio. E tu come sei sempre stato. Solo”. In Mal visto, mal detto, invece, sembra esserci un seppur minimo abbozzo di storia o perlomeno di immagini: c’è una donna vestita di nero che vaga lentamente in un paesaggio notturno, illuminato solo dalla luna, uno scenario spoglio, desertico, una pietraia bianca. Anche qui una luce fioca, sempre più fioca. Pervade la sensazione dell’attesa (già conosciuta nel capolavoro teatrale En attendant Godot), della sospensione in un purgatorio limbico per cercare di approdare ad: “Una radiosa bruma stagnante. Dove dissolversi in paradiso”, il luogo della redenzione ultima e della pace esistenziale associata al nulla, al bianco, al vuoto: “Sospiro della fine. Di sollievo…Il tempo di aspirare questo vuoto. Conoscere la felicità”, come a dire, solo la speranza del non essere può essere d’aiuto all’essere. Quindi: completa solitudine in Compagnia, parvenza di una qualche felicità nichilistica in Mal visto, mal detto. Apparentemente nelle opere beckettiane sembra regnare completamente l’asfissia totale, la mancanza di una possibile salvezza. Eppure in Peggio tutta (ed il titolo già di per sé non indicherebbe niente di buono), Beckett continua a scrivere, la coazione innata di uno scrittore autentico: si torna sempre daccapo, la voce non può fermarsi, deve parlare continuamente, raggiungere il silenzio è impossibile. Inoltre, c’è sempre una fine ma anche un inizio. Il tempo è circolare, nessuna linearità spazio-temporale e il punto d’inizio coincide con il punto d’arrivo escludendo di conseguenza la reale consistenza dello spostamento associato in modo paradossale all’immobilità. Il moto quindi combacia con la stasi in quanto il massimo movimento sarebbe anche la massima quiete. I contrari in Beckett si equivalgono (il caldo minimo corrisponde al freddo minimo, dire tutto è come dire nulla). In Peggio tutta, lo scrittore si spinge al limite della parola, del detto e del non detto, del percepibile e dell’impercettibile fino ad arrivare alla soglia di quell’oltre metafisico cui non riesce a dare una risposta. Perché è proprio questa la condizione umana: l’eroe-uomo-personaggio percorre la propria vita come se fosse un’odissea, il periplo eterno della coscienza inconsapevole del mistero esistenziale: “Ai limiti del vuoto illimitato. Oltre cui non oltre. Ottimo peggio non oltre sia. In nessun modo meno. In nessun modo peggio. In nessun modo niente. In nessun modo ancora. Detto in nessun modo ancora”.

Vincenza Fava




Voce

Avrebbe voluto annegare in quella voce e perdersi nelle sue profonde tonalità, aggrapparsi a quegli istanti di morbida armonia che solo l'intesa può dare. Non voleva smettere di parlare, avrebbe parlato all'infinito, di sé e di tutto quello che avrebbe voluto dire, dell'incanto di un sogno che sembrava reale. Era il cuore a parlare e niente di più, ma si sa che il cuore non ha parole in certi momenti ... segue un silenzio profondo che sa di tenerezza e candidi abbracci, quelli che solo la grazia può concedere. E allora aspetti di vivere così per tutta l'eternità aggrappata a quella voce e nulla più ...

Vincenza Fava

Ignoto

Non puoi sentire freddo quando scende sul viso, è fioco tremore di viscere pulsanti, è vita che disperde fragili memorie. Lo stesso cadente tintinnio di docili gocce di pioggia che esprimono il desiderio di ritorno, nostalgia della schiettezza e della purezza. Ma le macchie restano a cancellare l'ardore della fine, quella che arriva quando nemmeno te ne accorgi. Basta un giorno di umide strade asfaltate, un giro di giostra sui metalli e tutto ha un senso. Provare sulla propria pelle il terrore dell'ignoto è come azzerare in un attimo ogni esperienza per poi rinascere e vedere che ancora c'è luce intorno a te. Accendi una sigaretta tremando all'idea del pericolo scampato e ti accorgi di essere viva, ancora viva mentre il calore rosso fiammante misto a sale di lacrime distillate ti riga le gote e tutto ha un senso. La tua vita ha un senso proprio quando il senso sta per essere perduto per sempre. Comprendi di avere uno scopo perché non sei rimasta lì sotto, c'è ancora qualcosa da fare e da scoprire. E nasce una sola preghiera spontanea: aiutami a vivere il mio scopo, solo questo chiedo alla brevità del tempo, prima che s'arresti lo scorrere inquieto del mio sangue.


Vincenza Fava


Notte danzante

Mi domando cosa sto facendo, qui in questo momento, lontana dagli abbagli della notte danzante. Ho bevuto un po’ troppo, mi fa male la testa, per non dire la mente, scossa da quella parentesi fuggevole. Su questo letto non ho riposato un granché, è il letto di una nomade, una che si cerca la vita ovunque, dove capita, dove mi porta il sipario, dove mi portano le gambe. Ora mi prenderò una tazza di latte, mi hanno detto che ha funzione disintossicante, ma non lenisce la tristezza, quella paradossale sensazione di aver visto ciò che desideravi vedere, ma al tempo stesso ti immobilizza e ti atrofizza gli istanti, quelli che hai dentro, quelli che non sono misurabili, quelli che il tempo non riesce ad afferrare perché poi vanno a nascondersi troppo bene dentro le tue tasche distrutte, scendendo lungo il corpo, lungo le natiche, fino a sfiorare le caviglie. Poi passa l’irriducibile sensazione di pesantezza per lasciare spazio a nuovi pensieri quelli che sorgono insieme al sole, insieme agli occhi di chi ti ha visto piangere per una sciocchezza e ti ha sentito chiedere scusa, ingurgitando a fatica l’orgoglio di sentirsi offesa. Il vuoto non ti lascia se si riempie di banalità, vuole appesantirsi di altro, di qualcosa che in questo momento non puoi avere, l’impossibile al di là di un confine troppo lontano, un confine e un limite che vorresti oltrepassare anche e solo con la mente. Ma non basta, non basta per trovare sollievo e ascolti la musica, quella che ti fa danzare oltre, quella che ti fa guardare allo specchio e sentirti viva. Non c’è ragione per essere tristi, mi dico, in fondo ci sarà un’altra danza che mi aspetta e quel pieno tornerà di nuovo, anche se solo nei miei sogni.

Vincenza Fava

Il mio nome

Che cosa ho fatto durante il giorno ... un ago perso nel pagliaio. Una memoria breve mi sostiene nei momenti di mancato interesse. Un momento, un istante e poi il vuoto si prende il tempo necessario per dimorare. Che cosa ho fatto per resistere alle lungaggini del tedio: non lo so e nemmeno saprei dirlo. Aprire una porta e vedere se tutto è in ordine, ascoltare una canzone e non sentire le parole, dormire e non sognare, appendere un abito nell'armadio, magari è un modo per far finta di essere usciti, apostrofare sillabe per dedicare alla parola un'ora di gioco e dare sollievo alla voce. Non ti ascolta l'aria? Invece le onde non sono più immobili nella tua testa che comincia a danzare sulle note del cielo, un cielo celeste di quel celeste che non ricorderai più perché la memoria è breve e sanguina sudore su una testa di marmo che non cucina il pasto, ma serve al tuo cuscino che, immobile, si prende un momento di pausa. Che cosa ho fatto durante il giorno: gli oggetti ti circondano e non hanno più un nome, come te del resto, un nome non lo hai mai avuto, è rimasto chiuso dentro ad un cuore che non ti ascolta e ti nasconde perché il tuo nome fa paura, sono poche sillabe, ma pericolose. Le tue parole sono pericolose, accendono l'anima e spengono la gloria del nome, dedicano troppo tempo all'illusione di esser vivi e provare emozioni. Quelle non vanno bene, devono essere consumate durante il giorno e riposte nella tua memoria che per fortuna è breve e sanguina sudore su una testa di marmo. La tua testa mozzata, offerta in sacrificio a parole pericolose che accendono l'anima e spengono la gloria del nome perché il nome non ha gloria, è solo nell'anima che si accende la gloria, quella che hai cercato nelle parole, quella che tu hai fatto sanguinare per tagliare la mia testa di marmo.

Vincenza Fava

E Emma ancora non lo sa

Emma esce di casa, quell’insopportabile silenzio le ha frantumato le orecchie. Esce di casa per non ascoltare la sua coscienza. Esce di casa, con le poesie scritte col sangue tra le mani, per trovare un diversivo, per parlare con qualcuno che capisca la sua incontrollabile intolleranza alla vita quotidiana. Compra dei fiori al mercato, colorati al punto giusto e densamente profumati , mentre con uno sguardo disegna nel cielo le nuvole del suo paesaggio. Non cerca Dio, no, Dio può fare a meno di lei. Alla prossima fermata forse farà capolino, ma non è ancora il momento. Si guarda intorno, gli occhi della gente sono vuoti, non parlano, tacitamente si chiudono sui suoi. Cerca una casa, un nascondiglio dove annegare il suo dolore, per metterci una pietra sopra e continuare a sperare. Le poesie intanto ammuffiscono, perdono la tinta, vanno ritoccate. Ha un appuntamento col signore grassoccio e sudicio che le ha promesso una pubblicazione, unica ingenua speranza di poter vedere scritto il proprio nome a caratteri cubitali su un libricino che resterà chiuso alla vista dell’onnipotente pubblico, padrone indiscusso della fama. Ma lei ancora non lo sa, il peggio dovrà ancora arrivare. Nel portafoglio l’assegno per vendere alla carta la sua anima. Si affretta sulla strada. Comincia a piovere e forse l’acqua potrà spazzare via l’immondizia del mondo, compresa la sua ombra, troppo vicina, troppo soffocante. Il signore è già seduto al tavolo del bar con un sigaro in bocca. Il maleodore di quel corpo non curato le dà la nausea. Poche parole, l’importante è firmare l’assegno. Affrettati, basta poco. Sei vicina alla meta. Detto, fatto. Tra un mese sarai soddisfatta. Emma confonde ancora la sua vita con la vita degli altri, dà troppa importanza al giudizio e alle false aspettative di chi pensa solo a sé. Vuole appartenere al mondo, lei, non sapendo quanto è meschino il mondo in cui si riflettono le sue stupide speranze. Speranza di essere amata, speranza di essere capita, speranza di comunicare la propria essenza. Ma cos’è, dov’è questa essenza se si perde continuamente il significato di ciò che stiamo facendo? Emma ancora non lo sa ma è vicina al baratro. La poesia diventerà merce, la poesia così morirà. Non esiste un modo indolore per cambiare il destino, non esiste la possibilità di riscattare l’esistenza. E se incontri sulla tua strada un cinico personaggio che cerca la propria soddisfazione recandoti l’illusione di offrirti una fatua compassione, non puoi trovare la tua redenzione. Emma ancora non lo sa e cammina felice questa volta di tornare a casa con il futuro in tasca, alleggerita di qualche migliaia di euro. Tanto a cosa servono i soldi se non a darti la felicità? Ogni cosa ha un prezzo, tranne ovviamente l’amore. Ma è qui il punto dolente, qui l’errore più grande. Lo saprà dopo un anno, quando vedrà marcire i suoi libri ancora freschi di pubblicazione dentro gli scatoloni della sua polverosa soffitta e dovranno passare ancora molti anni fino a quando una lama ben affilata trapasserà il suo debole costato. Ora Emma non scrive più, la sua vita è appesa alle ombre della sua solitudine, non capisce l’errore. E allora si dispera, non capisce l’errore che è stato quello di innamorarsi della propria immagine riflessa nello sguardo gelido di colui che ha giocato con la sua anima, triturandola e masticandola insieme alle sue poesie, per poi sputarla come orrido pasto a bruti morenti.

Vincenza Fava

mercoledì 12 ottobre 2011

Memento

Al pallido cruccio dei vivi

sorrise il volto clandestino del Tempo

su parole deserte e suoni di vertebre oscillanti.

Schioccai le dita su bocche di umide foglie

annaspando sulle cime dell’aldilà.

E allora fui io che sorrisi, danzando

al pallido volto degli angeli.
Vincenza Fava



Sulla riva

Era sulla riva del mare che dimenticava le avventure della vita, sognando antilopi lunari sorrette da nuvole di stelle. Su quella riva aveva trascorso serate indimenticabili, aveva consolato la tristezza e adagiato i sogni sulle costellazioni del pensiero. La nudità del corpo era un riflesso della sua mente, nessun senso di pudore nell’annullamento completo dei sensi nelle acque infinite dell’oceano del mondo. Apparentemente stanca, sembrava inghiottire il silenzio in una stasi di parole recitate a memoria come se stesse rammemorando le stagioni passate per ridurle a grumi di senso, quel senso che fortemente stava sfumando sulle gocce d’acqua scivolate sulle sue mani e senza ritorno. Era tornata su quella riva per apprendere la sonnolenza della vita che scorreva ancora nelle vene, ma che presto avrebbe preso un’altra strada … Allora fissava l’orizzonte rosaceo di una fresca sera di settembre, quando le ombre avanzano più velocemente da ovest e la luna appare in veste luminosa, grande e pallida sorgente di eterno sollievo. Forse nulla era perduto, forse la vita poteva ancora contare i giorni andati e quelli a venire, nonostante parole scritte, anamnesi e terapie d’urto che avevano indebolito il suo involucro temporaneo fino a farlo restringere come un tubetto di dentifricio spremuto da una mano forte e indifferente. Non ne era però uscita ancora la sua anima, attaccata prepotentemente all carcassa di un naufrago che ha ormai perso la propria zattera.
Vincenza Fava


martedì 11 ottobre 2011

Amore d'autunno

L'autunno sfoglia pagine di lenta indolenza su queste ore. Cresce l'attesa per costruire sogni in cui credere ancora e non finirà questo Tempo dentro mattine umide di debole pioggia. Varcare soglie ancora più lontane e raggiungere mete impossibili trascinate da freschi pomeriggi quando l'aria è più sottile e gli uccelli ringraziano il pane del giorno. Non finirà questo Tempo dentro uggiose serate quando l'abbandono resiste alla volontà di fermare l'attimo della struggente malinconia che si rispecchia in vetri pallidi di lune deserte, mentre le stelle illuminano i passi della notte. Cantano le foglie, cantano il suono del primo amore seduto su una panchina ad aspettare un bacio di consolazione alle vibranti scosse della tenerezza. L'amore non chiede nulla al suo diluvio di speranza, resta chiuso nel suo tiepido nascondiglio pronto a soccorrere l'anima ferita del suo padrone. Non cerca scuse, non rifiuta un abbraccio, non allontana il tuo cuore, ma aspetta e accetta qualsiasi piccolo dono. E poi colma ciò che non potrebbe essere mai colmato dalle parole con la pienezza di un sacro silenzio che cosparge di assenzio lo spazio dell'intesa. L'amore non vuole ferire, l'amore dà sollievo, l'amore ti sostiene e ti illumina anche quando è tutto buio intorno a te, si fa piccolo e si nasconde, ma tu riuscirai sempre a trovarlo perché quando lo hai conosciuto una volta, lui, fedele e galante, non ti abbandonerà mai più. L'amore supera il legame umano, le regole e le imposizioni, è ribelle per natura e non ti salverà dallo scuotimento: ma un albero abbattutto dal vento tiene ferme le sue radici e potrà rinascere al primo sole di primavera ...

Vincenza Fava

lunedì 10 ottobre 2011

Perdono

Ho aperto lettere di perdono
simulando sorrisi,
freddi pensieri
lasciati sfiorire
sull'albero
delle memorie.
Ho lasciato quella difesa
abbracciata ad un limbo
di parole sfumate
perché sfiorassero
zolle di terra
e profumi clandestini.
Sul balcone del mio destino
sono apparsi cieli sconosciuti
in semilune abbagliate
da colori e luci fresche
d'autunno.
Correrò ancora
avvolgendomi di gocce
di mare infinito?
Tornerò alla mia innocenza,
alla mia libertà
di desiderare
di aspettare
ancora
un posto nel mondo?
Avrò pace e coriandoli di seta
da sciogliere nel vento
delle mie deboli sere
quando il perdono
non chiede perdono
e la rabbia
si tramuta
in carezze di miele?
Lungo quelle strade
d'avorio
tornerà
la bianca pace
di abbracci,
caldi di speranze
future.
Voglio essere
il bambino
del mio perdono,
il fresco rifugio
della bianca pace
di abbracci,
caldi di speranze
future.
E dire,
questo è il mio
cuore,
batte ancora
oltre il dolore
oltre la tristezza
oltre l'esser vivi
oltre le domande
oltre le risposte
che scriverò
sull'arcobaleno
della prima pioggia
d'aprile.

Vincenza Fava


domenica 9 ottobre 2011

Ad occhi aperti

E poi mi disse, c'è tanto da fare, c'è tanto da dire ma dobbiamo ridere, sempre, sorridere e ridere, non smettere mai ... non puoi tacere e piangere, dobbiamo ridere e scuoterci di dosso questa tristezza che a malapena ci fa sentire vivi. No ... non siamo nati solo per soffrire, siamo nati per sognare e meglio se ad occhi aperti. I tuoi occhi possono vedere oltre ciò che vedi, non credere che tu sia sola qui di fronte a te stessa, al di là del muro c'è altro, al di là dello specchio un mondo intero. Non credere che si possa vivere di soldi, quando tutto sarà finito non potrai più contarli, ma potrai raccontarti e racconta, mi raccomando, racconta sempre, il mondo che ti circonda, quello che senti e quello che vedi, ma soprattutto ricorda siamo nati per sognare e meglio se ad occhi aperti. Allora tutto avrà un senso, tutto potrà sembrare vero quando il vero non esiste affatto. Cambia, cambia prospettiva sempre, non salire mai su un piedistallo, resta a terra, solo così potrai volare. Cambia angolazione, destra, sinistra, centro, alto, basso, osserva le sfumature, non restare attaccata all'evidenza, c'è ben altro oltre e ricorda siamo nati per sognare e meglio se ad occhi aperti. Ho visto il tuo volto rigato di lacrime troppe volte, ho visto il tuo cuore piegarsi sotto onde anomale di follia, ho visto sparire la tua certezza di essere viva, ho visto quanto ti facevano male le parole, quelle pesanti, quelle folli e quelle piene d'egoismo, t'ho visto segnata da impronte straniere, ma t'ho visto, sì ti ho visto ridere, resta, non andartene via dal tuo sorriso e ricorda siamo nati per sognare e meglio se ad occhi aperti. Ora sarò io ad andarmene, ho già fatto tutto qui, volevo solo dirti che la morte non mi separerà mai da te, mai, i miei occhi potranno vedere attraverso i tuoi se solo imparerai che siamo nati per sognare e meglio se ad occhi aperti ...

Vincenza Fava

venerdì 7 ottobre 2011

Con una rosa

Il suono di quella musica effondeva note passionali nell’ombra delle fievoli luci che baluginavano nella stanza, oscurata da sentimenti contraddittori. Il ritmo sgretolava i nodi dello scrutare così come il sale sulla neve. Un passo dietro l’altro, un inchino che sfiorava le gambe ancora intorpidite dalla stasi e poi ancora un altro passo… nel tempo della nostalgia, il richiamo alle fuggite passioni. Una sciarpa antica, profumata di lavanda inteneriva l’abbraccio sulla nuca, uno sfiorare, un tocco, una carezza come onda che lambisce la riva nei momenti di bassa marea. Ed una rosa, quella rosa che le era stata donata come pegno di un cuore invisibile. Poi il distendersi di un braccio sulla propria mano offriva la possibilità di un incontro al buio sulla distensione momentanea di note fulminanti ed incisorie. Così i suoi piedi cominciarono a tracciare e a solcare sul pavimento figure circolari e leggere come brezza marina. Svanito il buio della stanza, la solitudine era andata a far compagnia alla notte mentre la musica celebrava i sensi nell’indomita freschezza di un rinnovato stupore, quello di esser vivi. Non c’erano sbagli o incertezze, tutto sostava nel corpo rinfrancato dal ritmo del sangue che a poco a poco riemergeva, lava e magma del suo fuoco interiore. Tutte le fibre si allentavano e si ritraevano perfettamente nell’istintivo matrimonio con la sua estasi. Volteggi e contorsioni spasmodiche nel tempo di pochi secondi, giusto il tempo di assaporare il sudore ritrarsi sulla pelle, deserto di stelle. Il compiacimento sosteneva l’invisibile sguardo della luna che faceva capolino al suo cuore ormai ingentilito dalle armonie di un cielo incantato dalla propria creatura.

Vincenza Fava

Proteggimi

A tutte le donne vittime di violenza

Proteggimi, su questa strada buia,sconnessa e umida di pioggia sporca. Batti un colpo, ora se ci sei. Non voglio sentire questo corpo, annullami, proteggimi. Mentre questa carne violata sputa sangue, io non voglio ascoltare il dolore e la mia colpa di essere donna. Cosa è questo cumulo, grumo di sudore, dentro di me. Sporca, mi sento sporca, mi sta sporcando, chiudo gli occhi, non voglio vedere. Batti un colpo, ora se ci sei, annullami, proteggimi, portami via da questa strada buia, sconnessa e umida di pioggia sporca. Io non sono nata per questo, voglio sentire il profumo delle viole di campo, non voglio vedere il suo volto, non è un volto, è un uomo morto che cerca di vivere di me, mi sta consumando l'anima, mi sta trascinando lontano in un luogo che non voglio conoscere. E' la mia perdizione, lo so, ora sto scendendo nell'inferno e tu se ci sei batti un colpo, batti un colpo se ci sei. Vorrei uccidere, uccidermi, ma ho le mani legate in questo tumulto, caos assurdo di scottante verità. Sono arrivata al limite, questa è la soglia dell'altrove e non voglio più tornare. Uccidimi prima di andartene e lasciarmi qui, su questa strada buia, sconnessa e umida di pioggia sporca. Porterò la mia colpa nella tomba e nessuno saprà e non vedrà il sigillo del peccato, quello che mi porto dentro da quando sono nata, senza chiedere nulla a nessuno, nemmeno a te che non hai battuto nemmeno un colpo mentre ti imploravo e guardavi da lassù, l'opera della tua redenzione...

Vincenza Fava

giovedì 6 ottobre 2011

Domani

Non un soffio,
non un alito di vento,
nessuna pergamena
di perdono.
Sintassi esclusa,
punteggiatura invisibile.
Tutto si capovolge
nel nulla del domani
quando il tempo
raccoglie
le briciole
del futuro
per darle in pasto
a memorie perdute.
Allora mi mostrerò
nell'infantile bisogno
di essere ancora viva
per accogliere
giochi
di sonnambula
inconsapevolezza.

Vincenza Fava

Anemos di Mirna Manni

Sabato 10 settembre alle ore 18.00 ai Magazzini della Lupa di Tuscania grande successo per il vernissage della personale “Anemos” di Mirna Manni, con l’intervento del critico d’arte Luciano Marziano. L’artista tuscanese, dopo alcuni anni e dopo aver partecipato a varie manifestazioni in tutta Italia, ritorna ad esporre nel proprio paese con una mostra intensa e densa di significato. Mirna Manni ci propone una serie di sculture in argilla, elemento materico a lei più affine, che ci avvicina ai quesiti fondamentali dell’esistenza umana e ci conduce  ad una interpretazione misterica dello Spazio e del Tempo attraverso un dialogo continuo tra forme piene e forme vuote, tra vita e morte, tra presenza ed assenza, tra bianco e nero. Partendo da una “nuvola di bozzoli bianchi”, l’artista ci accompagna visivamente nell’universo delle sue creazioni, parvenze ed immagini della propria anima, in cui la Natura, intesa come principio ed origine di ogni cosa, ha un ruolo predominante. Il bozzolo e poi il seme chiuso, simbolo della vita in fieri, attendono la metamorfosi, lo schiudersi repentino e fragile di un’esistenza che trova nel respiro la certezza dell’esser-ci. Di qui le forme piene appese rigonfie di alito vitale reso magicamente dalla sospensione e dalla leggerezza di un impercettibile movimento dei fili che sostengono precariamente la “nostra vita quotidiana” affidata simbolicamente ad una inquieta semi-stasi che attende la trasformazione di una Morte resa matericamente e spazialmente da forme sgonfie declinate al suolo. Questo apparente dualismo binario delle forme si ritrova nei pannelli con sculture bianche e nere, dove il bianco è metafora della pienezza assoluta della luce e quindi della vita, mentre il nero assoluto è simbolo della morte e quindi del Nulla, del vuoto. Apparente dualismo perché in fondo l’artista con le sue sculture intende comunicarci l’unione imprescindibile di vita e morte nella loro mistica e misteriosa ciclicità; di qui il senso di una profonda appartenenza dell’esistenza al divenire e alla melodiosa poetica dell’eterno ritorno. Le sculture di Mirna Manni possiedono lo spazio oscillando e sospendendo ogni forma di giudizio, suggeriscono incontri con il proprio vissuto, sono intrise di gioia, di dolore e soprattutto di memorie. I ricordi, fondamento principale di ogni certezza esistenziale, diventano oggettuali, s’incarnano nella materia, nella creazione di forme surreali che invitano lo spettatore a proiettare il visivo nello spazio della propria interiorità per scrutarsi e quindi scrutare il meraviglioso dono della vita, soffio di leggerezza spirituale e altrettanto pesante sgomento nel decadimento della carne. Eppure la speranza della luce è sempre sottesa, è sempre unita alla visione di una Luce finale che abbaglia e gratifica il doloroso cammino dell’essere umano, viaggiatore e nomade in un mondo enigmatico, incomprensibile alla nostra mente. Ed è proprio l’artista, l’artigiano, il creatore di nuove rivelazioni emozionali che può cercare di restituire un significato fecondo alle domande poste dalla “persona”, dalla maschera che avvolge quell’involucro sacro che è il nostro corpo. In questa nuova e struggente mostra, la scultrice, all’infinito amore per gli elementi naturali tramutati in sensuali argille fiorite (un erotismo panico che attraverso l’uso della terra ci avvicina ad una attrazione atipica verso ogni profilo esistenziale), aggiunge una meticolosa ricerca sul corpo e sulla mente umana: sezioni anatomiche, maschere di volti cesellati e inscritti in contenitori materici. Mirna Manni dialoga con sé stessa rendendoci partecipi delle sue intuizioni: il filo della memoria lega ogni vicissitudine, ogni evento che sorprende nella sua inquietante casualità. Impermanenza e precarietà trovano nei ricordi affettivi un punto d’incontro con l’essenza dell’anima stessa. Il viaggio dell’artista è proteso alla decantazione dei propri residui inconsci per poi esternarli e renderli contenuti profondi di eterea bellezza. Contenuti visivi che rispecchiano le emozioni, i pensieri  e i dubbi esistenziali di ogni essere umano. La risposta è solo nella Bellezza delle creazioni di Mirna Manni, una sapiente scultrice che riesce ad ammaliare lo sguardo e lo spirito di chi sa vedere oltre l’apparenza delle Forme. Mail: magazzinidellalupa@libero.it


Vincenza Fava