Binari storti

Binari storti
Binari storti (LietoColle, 2015)

sabato 15 ottobre 2011

Al mercato

Camminavo tra le bancarelle, persa nel vociare della gente intenta ad acquistare piccoli oggetti, vestiti usati, scarpe economiche e stranamente colorate, fiori per arredare case chiuse al sole o amorose tombe da piangere in giornate uggiose e deprimenti. Mi rendevo conto della moltitudine, dell’estensione dei corpi, della materia che occupava lo spazio e non riuscivo a vedere altro se non la mia perdurante assenza. Neanche un boato avrebbe potuto risvegliarmi dalla pesante apatia che martellava furiosamente nella mia mente. Le persone erano diventate maschere bianche, in vesti cangianti e trasparenti. Una bambina nella carrozzina lanciava grida inverosimili che scioglievano il tepore della pelle materna. Il venditore di formaggi ormai era intrappolato senza saperlo negli infinitesimali umori del latte cagliato, mentre il commerciante africano di borse se ne stava seduto per terra, in attesa della prossima persona interessata alle futili mercanzie che riportavano famosissimi marchi riprodotti alla meno peggio. Bastava attraversare la strada e lasciare quel mondo confuso, aggrovigliato in pochi spazi in cui le strettoie apparivano corridoi verso l’appropriazione indebita delle possessioni. Acquistare un oggetto mi avrebbe regalato un tempo, l’effimera sensazione di appartenere al gruppo, alla generale , bulimica consumazione di ore capricciose e frivole. Ma una cosa aveva attirato la mia attenzione: un vociare più forte proveniva da un punto ancora indecifrabile. Cominciai ad avvicinarmi allo spazio in questione captando la vicinanza sempre più imminente delle voci. Mi affacciai in punta di piedi tra le teste della gente e vidi un vigile urbano che urlava a squarciagola, mentre un  venditore del continente nero stava rimettendo le sue cianfrusaglie dentro una gigantesca borsa di plastica. Non hai il permesso, ti dico ancora una volta, non hai il permesso, vattene di quiiiii! Mi hai visto? Chi sono io, eh? Chi sono?, Io non so, io non so… Come non lo sai, lo sai e fai finta di non capire, ma chi c…o ti ha fatto venire qui, eh, me lo sai dire, tornatene da dove sei venuto e fai pure in fretta altrimenti m’inc…o sul serio! Nel momento stesso in cui il ragazzo sulla ventina, dalle pelle color ebano e lucida di sudore e vergogna, si mise la borsa a spalla e cominciò a camminare verso la propria autovettura, la gente, come se non fosse successo un gran che, ricominciò a passeggiare e a guardare le bancarelle. Solo io ero rimasta lì, inebetita e più apatica di prima, col peso sulla coscienza, un senso di colpa avvilente: non avevo agito, il gruppo mi aveva agito.
Vincenza Fava

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