L'odissea dell'io beckettiano nell'ultima grande trilogia: oltre la dissolvenza del corpo e della voce
di Vincenza Fava
Nohow on ossia In nessun modo ancora di Samuel Beckett
(Einaudi, pag. 100, € 14,50) a cura di Gabriele Frasca.
Compagnia, Mal visto, mal detto e Peggio tutta
costituiscono in un certo senso la seconda trilogia romanzesca
beckettiana (1981) e quindi l’ultima grande stagione creativa narrativa,
dopo Molloy, Malone meurt e L’innomable (1951-1953). Con L’Innomable,
il tentativo finale, decisamente fallito (volontariamente), di dar
vita, corpo e voce a un tradizionale eroe romanzesco, tra esegesi
narrativa e meta letteratura, Beckett era ormai approdato alla grande
forma espressiva teatrale estremamente congeniale alla sua inesauribile
ricerca di nuove realtà sperimentali - contemporanee in cui i nuovi
medium come la radio e la televisione andavano a interagire con il
corpo e la voce dell’attore. Eppure Beckett sentiva ancora la necessità
di confrontarsi con la scrittura, con il linguaggio per andare,
intellettualmente, oltre il semplice significante strategico
comunicativo e stereotipato delle parole, e arrivare alla consunzione
della costruzione sintattico-grammaticale tradizionale dell’idioma
scritto e parlato. “Giunge una voce a qualcuno nel buio. S’immagini. A
qualcuno sul dorso del buio”: inizia così Compagnia il primo racconto di In nessun modo ancora.
Questo buio indefinibile, potrebbe essere benissimo lo schermo nero di
un televisore. Tuttavia non c’è il silenzio assimilabile al nero, ma una
voce, un rumore di sottofondo, un corpo steso sul dorso, senza nome,
privo di qualsiasi attività mentale. Qui si può benissimo intravedere la
filosofia beckettiana intrisa della nota dicotomia cartesiana res
cogitans e res extensa, rivista e rigenerata attraverso l’occasionalismo
teocentrico del filosofo seicentesco olandese Arnold Geulincx
(1624-1669) il quale aveva spinto al limite il dubbio cartesiano e il
ricorso a Dio. Per Geulincx solo Dio è causa di tutte le cose, anche il
corpo non risponde ai nostri comandi, ma dipende dal volere di Dio, per
cui l’uomo non deve far niente altro che seguire la volontà di Dio,
esercitando l’umiltà. La sua morale può essere riassunta nella massima:
“Ubi nihil vales, ibi nihil velis”. L’uomo deve disprezzare sé stesso
(despectio sui) e cercare nella propria interiorità (inspectio sui).
Beckett fa però di questa massima l’esempio della passività
nichilistica, della tensione verso il vuoto e il nulla, verso l’assenza
inverosimile e paradossale della mancanza di movimento e quindi forse di
Dio. Tutto parte dalla testa, il cranio, sede presupposta delle nostre
facoltà mentali: ma il cervello è quasi completamente annientato e il
corpo giace inerme al buio. Perché tutto dipende dalla volontà. Torna a
sprazzi il minimo movimento a indicare che ancora c’è vita e
possibilità di parola. È impossibile costruire un romanzo basato su una
storia, su un intreccio, sul tessuto del tempo narrativo. Beckett a
volte traccia degli sputi di immagini: un vecchio, una strada di
campagna, i passi nel silenzio, suoni che variano come cadenze ritmiche
di un necrologio in fieri. Poi: “Dalla voce una fioca luce s’espande.
Quando essa risuona il buio rischiara”, alla voce è associata la luce,
portatrice di vita nel buio onnipresente. Luce e buio, voce e silenzio,
bianco e nero, sono le coppie coscienziali ed esistenziali amate dallo
scrittore. Beckett a volte diventa quasi un anatomista; la descrizione
neuro-fisiologica dei movimenti impercettibili del corpo è
inevitabilmente associata alle interminabili speculazioni linguistiche.
Tutto è trascinato alle sue estreme conseguenze, si raggiunge il limite
di ogni possibile situazione attraverso un’immersione continuativa nel
dubbio esistenziale-teologico dell’individuo privato dei rapporti umani e
gettato nell’inferno schizofrenico del proprio io. La compagnia di un
altro essere umano è soltanto un’utopia: “Fino a che alla fin fine tu
non senta come stiano cominciando a finire le parole... La favola di
qualcuno con te nel buio. La favola di qualcuno che affabula con te nel
buio. La favola di qualcuno che affabula di qualcuno con te nel buio. E
quanto meglio a conti fatti la fatica persa e il silenzio. E tu come sei
sempre stato. Solo”. In Mal visto, mal detto, invece, sembra
esserci un seppur minimo abbozzo di storia o perlomeno di immagini: c’è
una donna vestita di nero che vaga lentamente in un paesaggio notturno,
illuminato solo dalla luna, uno scenario spoglio, desertico, una
pietraia bianca. Anche qui una luce fioca, sempre più fioca. Pervade la
sensazione dell’attesa (già conosciuta nel capolavoro teatrale En attendant Godot),
della sospensione in un purgatorio limbico per cercare di approdare a:
“Una radiosa bruma stagnante. Dove dissolversi in paradiso”, il luogo
della redenzione ultima e della pace esistenziale associata al nulla, al
bianco, al vuoto: “Sospiro della fine. Di sollievo... Il tempo di aspirare
questo vuoto. Conoscere la felicità”, come a dire, solo la speranza del
non essere può essere d’aiuto all’essere. Quindi: completa solitudine
in Compagnia, parvenza di una qualche felicità nichilistica in Mal visto, mal detto.
Apparentemente nelle opere beckettiane sembra regnare completamente
l’asfissia totale, la mancanza di una possibile salvezza. Eppure in Peggio tutta
(ed il titolo già di per sé non indicherebbe niente di buono), Beckett
continua a scrivere, la coazione innata di uno scrittore autentico: si
torna sempre daccapo, la voce non può fermarsi, deve parlare
continuamente, raggiungere il silenzio è impossibile. Inoltre, c’è
sempre una fine ma anche un inizio. Il tempo è circolare, nessuna
linearità spazio-temporale e il punto d’inizio coincide con il punto
d’arrivo escludendo di conseguenza la reale consistenza dello
spostamento associato in modo paradossale all’immobilità. Il moto quindi
combacia con la stasi in quanto il massimo movimento sarebbe anche la
massima quiete. I contrari in Beckett si equivalgono (il caldo minimo
corrisponde al freddo minimo, dire tutto è come dire nulla). In Peggio tutta, lo
scrittore si spinge al limite della parola, del detto e del non detto,
del percepibile e dell’impercettibile fino ad arrivare alla soglia di
quell’oltre metafisico cui non riesce a dare una spiegazione. Perché è
proprio questa la condizione umana: l’eroe-uomo-personaggio percorre la
propria vita come se fosse un’odissea, il periplo eterno della coscienza
inconsapevole del mistero esistenziale: “Ai limiti del vuoto
illimitato. Oltre cui non oltre. Ottimo peggio non oltre sia. In nessun
modo meno. In nessun modo peggio. In nessun modo niente. In nessun modo
ancora. Detto in nessun modo ancora”.
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