Non amo molto la carne di pollo, anzi non la amo affatto:
riconosco l’odore di pennuto spennato in padella a cento metri di distanza.
Questo mio rifiuto forse risale all’età dell’infanzia e ad altre disavventure
culinarie dell’età matura: d’estate trascorrevo pomeriggi interi nel pollaio a
spargere chicchi di grano a destra e a manca. Mi divertivo a veder correre le
gallinelle ancora vergini (ancora poco lontano il tempo dei coccodè doloranti)
a cercare di beccare per prime la manna volante, mentre con le ali spiegate
compivano giri incredibili su se stesse. E il gallo le chiamava, come un basso
continuo, per mostrare la futura galanteria che avrebbe riservato in maggior
misura alle damigelle del suo reame. Per non parlare dei pulcini, teneri e
coccolosi, pigolosi e morbidosi, meglio dei peluches immobili e impolverati che
dormivano tutto il giorno sugli scaffali della mia cameretta fucsia e bianca; ma
le tende erano bianche con mille bolle blu, tanto che ogni volta, prima di
addormentarmi alla luce soft del mio abat-jour, canticchiavo sottovoce la famosa
melodia di Mina, cercando di imitare con le mani fuori dal letto i movimenti
ondulatori delle sue mani e cercavo di acciuffare anche il silenzio coatto che
seguiva e precedeva l’abbandono tra le braccia di Morfeo. Che i bambini mica
vorrebbero dormire mai… come se fosse
sempre la vigilia di Natale. Insomma in una fredda domenica mattina di febbraio
che mi vedeva ancora sognare eroi ed eroine, bambole e biciclette, cartoline e
figurine, piombò nel mio letto dalle mani di mio padre, un piccolo esserino
semimorto, la testa ciondoloni, giallo e un po’ bagnato. “Tienilo sotto le
coperte al caldo con te per un po’, forse si riprenderà, la madre lo ha
abbandonato e ha trascorso tutta la notte da solo, al freddo e al gelo” disse
mio padre. Pensai subito al bambino Gesù e capii che mi era stato chiesto di essere
come il bue e l’asinello nella grotta di Betlemme. Era una grande
responsabilità e mi sentivo importante: così misi il pulcino sotto le coperte e
cominciai a espirare aria calda dalla bocca. Dopo pochi minuti il cuccioletto
aprì gli occhi e mi guardò fissamente, quindi cominciò a pigolare. Era vivo e
io felice e ancor più felice quando compresi che ormai mi considerava la sua
mamma. Gli diedi un nome: Piripicchio. Da quel momento ovunque io andassi, lui
veniva dietro di me, mi rincorreva e quando mi fermavo, lui si fermava,
aspettava ogni mio movimento. Arrivò la primavera e poi l’estate: Piripicchio
aveva imparato a stare sulla mia spalla, anche quando andavo in bicicletta,
anche quando andavo a trovare i miei cugini e le mie cugine. Si divertivano un
mondo a vedere tutto quello che gli avevo insegnato. Io e Piripicchio eravamo
ormai inseparabili. Lui intanto cresceva e il piumaggio giallognolo era caduto,
lasciando il posto a piume e penne dalle sfumature variegate come un arcobaleno
e una piccola cresta rossa sporgeva dalla sua piccola testa rotonda. L’estate
dei miei sette anni fu una delle più belle della mia infanzia. Non voglio
raccontare il seguito, non mi piace, voglio tacerlo, ma forse si può benissimo
immaginare. Da allora non riesco a mangiare la carne di pollo. Ricordo
benissimo l’odore di un galletto vivo, non voglio ricordare l’odore della sua
carne in padella condita di aglio, olio e pomodorini. Piripicchio non aveva le
misure giuste per diventare il re del pollaio e in fondo ho sempre pensato che
la fortuna fosse solo una questione di numeri. Mezzo centimetro in più e stai oltre il
fossato, mezzo centimetro in meno e ci stai dentro, con tutte le piume.
Vincenza Fava
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