Binari storti

Binari storti
Binari storti (LietoColle, 2015)

martedì 1 dicembre 2015

Piripicchio



Non amo molto la carne di pollo, anzi non la amo affatto: riconosco l’odore di pennuto spennato in padella a cento metri di distanza. Questo mio rifiuto forse risale all’età dell’infanzia e ad altre disavventure culinarie dell’età matura: d’estate trascorrevo pomeriggi interi nel pollaio a spargere chicchi di grano a destra e a manca. Mi divertivo a veder correre le gallinelle ancora vergini (ancora poco lontano il tempo dei coccodè doloranti) a cercare di beccare per prime la manna volante, mentre con le ali spiegate compivano giri incredibili su se stesse. E il gallo le chiamava, come un basso continuo, per mostrare la futura galanteria che avrebbe riservato in maggior misura alle damigelle del suo reame. Per non parlare dei pulcini, teneri e coccolosi, pigolosi e morbidosi, meglio dei peluches immobili e impolverati che dormivano tutto il giorno sugli scaffali della mia cameretta fucsia e bianca; ma le tende erano bianche con mille bolle blu, tanto che ogni volta, prima di addormentarmi alla luce soft del mio abat-jour, canticchiavo sottovoce la famosa melodia di Mina, cercando di imitare con le mani fuori dal letto i movimenti ondulatori delle sue mani e cercavo di acciuffare anche il silenzio coatto che seguiva e precedeva l’abbandono tra le braccia di Morfeo. Che i bambini mica vorrebbero dormire mai…  come se fosse sempre la vigilia di Natale. Insomma in una fredda domenica mattina di febbraio che mi vedeva ancora sognare eroi ed eroine, bambole e biciclette, cartoline e figurine, piombò nel mio letto dalle mani di mio padre, un piccolo esserino semimorto, la testa ciondoloni, giallo e un po’ bagnato. “Tienilo sotto le coperte al caldo con te per un po’, forse si riprenderà, la madre lo ha abbandonato e ha trascorso tutta la notte da solo, al freddo e al gelo” disse mio padre. Pensai subito al bambino Gesù e capii che mi era stato chiesto di essere come il bue e l’asinello nella grotta di Betlemme. Era una grande responsabilità e mi sentivo importante: così misi il pulcino sotto le coperte e cominciai a espirare aria calda dalla bocca. Dopo pochi minuti il cuccioletto aprì gli occhi e mi guardò fissamente, quindi cominciò a pigolare. Era vivo e io felice e ancor più felice quando compresi che ormai mi considerava la sua mamma. Gli diedi un nome: Piripicchio. Da quel momento ovunque io andassi, lui veniva dietro di me, mi rincorreva e quando mi fermavo, lui si fermava, aspettava ogni mio movimento. Arrivò la primavera e poi l’estate: Piripicchio aveva imparato a stare sulla mia spalla, anche quando andavo in bicicletta, anche quando andavo a trovare i miei cugini e le mie cugine. Si divertivano un mondo a vedere tutto quello che gli avevo insegnato. Io e Piripicchio eravamo ormai inseparabili. Lui intanto cresceva e il piumaggio giallognolo era caduto, lasciando il posto a piume e penne dalle sfumature variegate come un arcobaleno e una piccola cresta rossa sporgeva dalla sua piccola testa rotonda. L’estate dei miei sette anni fu una delle più belle della mia infanzia. Non voglio raccontare il seguito, non mi piace, voglio tacerlo, ma forse si può benissimo immaginare. Da allora non riesco a mangiare la carne di pollo. Ricordo benissimo l’odore di un galletto vivo, non voglio ricordare l’odore della sua carne in padella condita di aglio, olio e pomodorini. Piripicchio non aveva le misure giuste per diventare il re del pollaio e in fondo ho sempre pensato che la fortuna fosse solo una questione di numeri. Mezzo centimetro in più e stai oltre il fossato, mezzo centimetro in meno e ci stai dentro, con tutte le piume. 

Vincenza Fava 




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